Autocritica e autocompassione.
Quale parola conosciamo di più? Quale ci sembra più funzionale per noi stessi?
A questa domanda, la maggior parte delle persone risponde: l’autocritica.
Dell’autocompassione forse sappiamo poco, mentre sappiamo più facilmente cosa significa provare compassione per l’altro. Su noi stessi invece ci sembra più utile, “giusto”, doveroso, autocriticarci.
“Sono veramente un tale idiota, come ho potuto comportarmi così? Sto rovinando tutto come sempre, devo essere più bravo.”
Questo dialogo interno ci suona familiare? Ci fa sentire meglio criticarci così? Pensiamo che così miglioreremo?
Abbiamo la credenza assoluta che autocriticarci sia d’obbligo per migliorarci, ma non ci rendiamo conto che a volte l’esser troppo critici con noi stessi ci provoca solo malessere.
Come possiamo dunque migliorarci senza che le parole autocritiche che ci rivolgiamo ci pesino come macigni?
Autocompassione. E’ un termine poco conosciuto, e forse non lo comprendiamo a fondo. Forse lo confondiamo con commiserazione?
Provare compassione per se stessi non è commiserarsi, lasciarsi andare, rassegnarsi al “sono fatto così”.
Provare compassione è essere gentili con noi stessi, riconoscere i nostri errori, le difficoltà, cercare di essere migliori ricordandoci però che le imperfezioni sono parti ineludibili del nostro essere umani e non vanno demonizzate. Così come possiamo comprendere l’errore dell’altro, provare compassione per lui, impariamo a farlo con noi stessi, prendendoci per mano, prendendo consapevolezza che possiamo migliorare, costantemente, ma solamente se non ci trattiamo male, se impariamo a perdonarci, se non diventiamo giudici inflessibili di noi stessi.
Non è semplice, gli ostacoli all’autocompassione sono ancora tanti, ma qui, a Piccoli Passi di Counseling, siamo sicuri che questa parola sia la via.
Margherita Verlato counselor